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Monte Castore, anno 2007

L'estate 2007 ha visto il ritorno di Varasc.it in vetta al Monte Castore, dopo l'esperienza del 2004: tre anni in cui i tre protagonisti di questo racconto (la montagna, l'autore, il sito stesso) sono ovviamente cambiati, senza però pregiudicare il nuovo incontro delle reciproche rotte. Ulteriori salite al Castore, relative agli anni 2004, 2008, 2010, 2011, 2013 sono disponibili nel sito.

Tentativo al Castore, domenica 22 luglio 2007 

Sono le 12.37, il tempo è soleggiato e mi trovo alla Bettaforca (2727, N45 52.217 E7 46.943): siamo in tre, Marco (già mio compagno di cordata sul Breithorn Occidentale nel 2005, e futuro sul Polluce, 04 agosto 2007) e Valerio. Le preoccupazioni sulla salute dei miei amici si rivelano infondate, malgrado la loro diretta salita dal caldo milanese: procediamo con calma alla volta del Rifugio Quintino Sella (3585, N45 54.058 E7 47.562) incontrando comodi nevai che interrompono la monotonia delle pietraie, ma solo sui 3400 metri, alle soglie della cresta attrezzata. Raggiungiamo il rifugio alle 15.37, rilassato grazie al lento passo adottato per via del peso dello zaino: veniamo guidati da Anita, membro dello staff, nel camerone superiore, dove almeno sette persone riposano o tentano di smaltire segni di malessere. Le lunghe finestre orientali ci mostrano spettacolari nubi provenienti dalla Valsesia, mentre ad ovest il sole splende fin oltre i Breithorn e la Gobba di Rollin.

Ci sentiamo bene e passiamo il resto del pomeriggio a prendere il sole sulla nuova piazzola per gli elicotteri, ammirando il predominante Castore e scattando fotografie a raffica; la mia massima occupazione consiste nel conservare la postura eretta propria della razza umana, con le ciabatte fornite dal CAI Biella. Nobili calzature, certo, peccato solo che allignino sul 44, mentre porto il 47 e mezzo. La cena (pasta con sugo di funghi e salsiccia, roast beef con piselli e carote, crême caramel) viene seguita dal magnifico spettacolo del tramonto, sul rilievo ad oriente del rifugio: siamo solo io, un ragazzo spagnolo e l'ometto ad ammirare l'ultima luce sulla Rollin, i primi bagliori al Rifugio Guide d'Ayas al Lambronecca, al Rifugio Mezzalama. La notte è perfetta: dormo benissimo e saporitamente, lungo il corridoio del camerone, e basta alzare lo sguardo oltre la sponda del letto superiore per scorgere qualche stella d'infilata, dalle finestre. 

Lunedì 23 luglio 2007 mi si presenta, mentre mi dirigo con il rasoio alla volta del bagno esterno, stellato e fin troppo caldo: niente vento, niente freddo, la Valle del Lys illuminata, fari di un camion. Sono di ottimo umore: la sveglia era stabilita alle 04.25 ma a quell'epoca avevo già piegato le coperte ed il sacco- lenzuolo, avendo dormito più che a sufficienza. A colazione il nostro tavolo è fortunatamente immune dalla strana malattia che sembra falciare le cordate, questa mattina: "Io non parto", "Non ho dormito niente", perfino la versione francese del nostro Ho contato le ore, una dopo l'altra. Valerio sembra un po' più affaticato ma è solo un'impressione: sono le 05.00 e siamo seduti sulla comodissima piazzola, ottima per calzare i ramponi e poggiare gli zaini. Partenza alle 05.16: sono in posizione mediana. Marco, il più leggero, adotta un passo ingannevolmente lento che ci porta a superare tutte le altre cordate, fino a trovarci in seconda posizione: davanti a noi, altri tre alpinisti (già puntini pronti a sparire sotto la depressione ai piedi del Felik) ed un singolo spagnolo dalla giacca gialla, armato di una magnifica Hasselblad, che talloniamo fino alla Punta Perazzi. Rimpiango la Zeiss-Ikon, lasciata a casa. Panorama mozzafiato, passo giusto sotto la mia velocità di crociera ottimale, stiamo tutti e tre benissimo: Valerio continua a cercare di parlare con Marco, senza accorgersi come ciò sia impossibile visti i venti e passa metri di distanza. Ponte-radio umano, gli consiglio di mandargli una e-mail via cavo, indicando la corda.

Purtroppo però nuvole allungate e nerastre nascondono le luci dell'alba sul Rosa e sopra di noi, già oltre il Felik: ad ovest è ancora chiaro, ma dalla Valsesia -sempre lei!- il fronte nuvoloso sembra far perno sulla Piramide Vincent, ruotando veloce verso di noi. Sono le 07.15 e mi trovo da qualche parte sopra al Colle Felik. Al buio: ho alzato la testa ufficialmente solo dopo il primo traverso ripido, alle soglie dei 4000 metri. Ora siamo a quota 4091, secondo il GPS, e siamo qui dalle 07.01.16. Sette minuti e tre secondi più tardi il GPS, al sicuro nella sua custodia sullo spallaccio dello zaino, registra 4100 metri: in realtà siamo fermi. O meglio, sto ballando intorno ai miei compagni di cordata, tutti bloccati in questo falsopiano bianco ad aspettare che torni il sole, la luce. Non si vede a cinque metri di distanza, è come ritrovarsi in una bottiglia di latte o candeggina, con un fondo bianco: eppure devo tenere gli occhiali, il riverbero è forte. Alpinisti italiani e stranieri, intorno a noi, battono reciprocamente le mani cercando di non calpestare le corde, allungate dappertutto sul ghiaccio. Marco e Valerio, il primo depresso, il secondo preoccupato per il meteo, restano fermi a guardarmi ballare, mezzo imbiancato dal nevischio e mezzo asciutto. Alle 07.30, stabilito con rigorosa certezza di essere tutti d'accordo, gettiamo la spugna e seguiamo le altre cordate sconfitte, scendendo tutti insieme: un centinaio e più alpinisti, un'unica lunghissima cordata nel latte e nella candeggina, giù dai pendii del Felik. Perfino la traccia viene ricoperta dal nevischio, Marco -silente, furibondo- è costretto a correre per non perdere di vista gli altri, e così via quelli dietro Valerio. Scene da copertina de "Aria sottile" di Krakauer, quando usciamo dalla brodaglia a cento passi dal Sella: uomini informi, innevati in ogni interstizio del vestiario, infagottati, neri di rabbia e delusione. Un singolo alpinista filma la scena, viene scrutato come uno squilibrato, lo guardo con lo stesso astioso ribrezzo di chi rallenta per "ammirare" la scena di un incidente. Marco non parla, Valerio cerca di rassicurarci, è contento per aver superato la soglia dei 4000 per la prima volta.. Non è stata colpa nostra. Efficace come persuadere una tigre a diventare vegana. Sono le 08.28 quando rimettiamo piede al Sella, gli schiocchi delle due bandiere mi ricordano i rintocchi finali de Per chi suona la campana. Scuoto manate di neve dallo zaino e dal cappuccio del guscio.

Tutta Ayas è sgombra di nubi, panorama fantastico: massima beffa!, il Castore stesso si sgombra per venti minuti scarsi, mentre paghiamo. Il gestore, A. Favre, è gentilissimo e ci consola: effettivamente ci siamo presentati all'appuntamento con la montagna in forma smagliante, allenati e pronti, entusiasti e sani come pesci, ben equipaggiati e capaci. Non abbiamo dimenticato, smarrito o lasciato volontariamente indietro un singolo grammo di attrezzatura e vestiario; siamo saliti d'ottimo passo, abbiamo aspettato.. Io avrei resistito ancora, ho una soglia di tolleranza al freddo molto alta, ma certo non si può mettere a repentaglio la salute dei propri amici per uno stupido puntiglio. Infine, sono scesi (con noi o anche prima) proprio tutti, oggi. Ma sono solo parole. Autoconvinzione forzata. Devo ricordarmi continuamente l'immagine della corda che sparisce nel nulla, senza farmi vedere Marco!, oppure la serena luminescenza del GPS con la quale ho vegliato sulla nostra discesa dal Felik, per controllare la delusione.

Lasciamo il pianoro del Rifugio Quintino Sella alle 09.05, e tutto ci pesa il doppio: sulla cresta colgo ogni occasione per voltarmi, smetto solamente alla Bettaforca, dove ho sepolto un vecchio paio di Nike con cui prendere il largo. Alle 13.35 mi ritrovo alla Crocetta di Saint Jacques, fissando per venticinque minuti la muta Punta Piure, a sud, prima che Marco e Valerio mi raggiungano: al Frachey la nostra auto è rimasta l'unica, al centro del parcheggio. Chiacchieriamo ancora, alla Grange, sono contento di aver conosciuto Valerio: una brava persona ed un ottimo compagno di cordata. Tuttavia il nervoso, il senso di vuoto e di perdita sono forti, in un modo che per un "non addetto ai lavori" riuscirebbe incomprensibile: in fondo siamo saliti bene, abbiamo compiuto al 100% il nostro dovere, senza malesseri e stupidaggini varie.. E siamo scesi tutti interi, come insiste un'amica, cercando di suscitarmi quella che -dal suo punto di vista- è pura e semplice obiettività. Lei però non può conoscere il peso dello zaino, le ore là sotto, le pietre instabili, il canapone che non arriva mai, l'attesa di domenica sera, l'esultanza di lunedì mattina, la mia fortissima convinzione che queste nuvole adesso si alzano, dai.. Il senso di sconfitta cocente durante la discesa, il senso di errore, di essere contro natura, provato in quella discesa eterna dove tutto -la mia mente, ogni mia fibra, muscolo e nervo- era unicamente pronto e destinato a salire. La mia incapacità di colmare questo vuoto, questa vergogna, con parole sensate. Il bruciante istante, alla Capannina del Mulo, in cui la vista di una semplice roccia -toccata il giorno prima- mi ha convinto, per un nanosecondo, di essere ancora impegnato nella salita. Di poter tornar su. Essere costretti a staccarsi da qualcosa di amato, cercato e bramato -un oggetto, una persona, una montagna- è crudele e contrario alla natura umana, tanto più quanto invece si sente di aver meritato l'incontro. Odiose e pusillanimi frasi di circostanza come le montagne non scappano, considerazioni estemporanee del tipo la montagna è così, a volte si sale, a volte no.. Riescono solo, nel migliore dei casi, ad acuire un dispiacere già sensibilmente pesante. Senza giustificazioni e senza scusanti, sono sceso da quella cresta con l'oscura ed umiliante percezione -appena, appena oltre la soglia di coscienza e razionalità- di aver mancato. Di aver tradito la fiducia di qualcuno. Di non aver portato a termine ciò per cui ero tornato al Quintino Sella. Ho calzato le vecchie Nike bucate e sono sceso di corsa, pur con venti chili (e due scarponi da alpinismo) sulla schiena. Sono scappato.   

Monte Castore: il ritorno 

Adesso la vediamo, mi dico -testualmente- osservando il Castore scintillare, sornione, a nord: chilometri di cresta sinuosa ed elegante, soli 636 metri di dislivello dal Sella. Sono in forma, anche se nei due giorni precedenti ho salito (da solo) il Monte Rosso, 3021, e la Punta Ruines, 2824. Mi trovo all'estremità settentrionale del vecchio rifugio, poiché ho voluto ammirare la montagna -traccia, ghiacciaio, valico, anticime e vetta- senza ostacoli. E' domenica 26 agosto ed una buona dose di nuove vette, e migliaia di metri di dislivello, mi separano da quella forzosa ritirata di fine luglio: contrariamente all'altra volta ho sofferto un gran caldo durante la salita da Saint Jacques al Sella, 1896 metri di dislivello vissuti uno dopo l'altro, senza distrazioni. Alle 11.05, grondanti, eravamo a Resy, ripartendone alle 11.20; alle 12.30 ero al colle di Bettaforca, ripartendone alle 13.04 dopo qualche pezzo di cioccolato e qualche grado in meno. Per il pranzo vero e proprio abbiamo scelto la Capannina del Mulo (3150 circa, N45 53.372 E7 47.038), stranamente sgombra di bidoni e rumenta, come dice il mio amico vercellese. Alle 15.00 sono arrivato alla selletta panoramica a quota 3250, tagliando poi a destra sulla fascia di rocce chiare fino all'inizio del canapone, raggiunto alle 15.50 (3450 circa, N45 53.802 E7 47.408 all'ometto). Ho trovato poca neve, fermandomi ad aspettare i due compagni di cordata: Marco, ancora una volta, e Alessandro.

Sono il primo ma arriverò per ultimo al Sella, alle 16.18: Marco soffre di mal di stomaco da giorni e per questo motivo allunga il passo sulla cresta, mentre mi attardo a fotografarne la parte terminale, per due amici che presto vi saliranno per la prima volta. Al rifugio, è sempre Anita ad indirizzarci alla stanza numero 10, dove incontriamo (preparando già il letto e disfando lo zaino per risistemarlo in ordine "da battaglia") i due ragazzi che ci accompagneranno l'indomani: un simpatico abruzzese, in vacanza sulle vette valdostane, ed un tranquillo varesotto, apparentemente quasi coetaneo dei miei amici ma già padre di famiglia. In cinque in una stanza da otto posti non abbiamo certo problemi di spazio, così nessuno se la prenderà se arrafferò una coperta in più, da usare come cuscino extra. La cena è alle 19.00 in punto, per soli quaranta ospiti, in parte italiani: pasta con sugo alle zucchine e nuovamente roast beef con fagiolini caldi. Infine, bavarese al limone. Altre foto al tramonto, con forti raffiche di vento, qualche nuvola ad oriente. 

Lunedì 27 agosto mi desta con il trambusto della stanza risvegliatasi improvvisamente alle 04.40: di ieri sera ricordo solo il caos fino alle ventidue!, con persone che parlavano ad alta voce nella sala sottostante (siamo proprio sopra le scale). Ho dormito magnificamente, sognando a lungo, e di tutto. Difficile rialzarsi dopo una simile nottata, tra coltri calde, abbracciato al sacchetto con digitale e GPS, per tenerne al caldo le insidiose batterie. Vivo in una sorta di dejà vû: la stessa colazione, té caldo nel bicchierone ustionante e vaschette di marmellata, niente miele grazie, niente zucchero prego, il burro lo passo all'ala. Marco, nonostante i miei sospetti in merito, ha assunto dell'Aulin ed ora è l'archetipo vivente dell'alpinista impavido; Alessandro, come sempre, sta benissimo. Anche i nostri compagni di stanza e di tavolo sembrano a posto, l'uno taciturno, l'altro espansivo. Il sottoscritto ha solo una meta in mente, capelli stile '80, zaino già pronto ai miei piedi: perfetto rituale da caserma, sveglia - coperte e lenzuolo piegati - zaino e materiali vari in spalla - giù per la colazione. Fuori è buio e sereno, con nuvole sul Castore che destano grandi preoccupazioni poliglotte nella sala e intorno al bagni, dove si fermano gruppetti di alpinisti provenienti da mezzo mondo, tutti intenti a guardare a nord con le mani in tasca. Scorgo una gentile signora germanofona con tanto di beauty-case e, armato solo del mio fedele spazzolino, mi sento una sorta di rude uomo del Klondike: il rasoio stavolta è rimasto quasi duemila metri più a valle, niente incontri galanti in quota, tanto.

Sono le 05.43 quando ci troviamo tutti fuori dal rifugio, alla luce delle alogene, le 05.47 quando anche Alessandro si lega in cordata: io, che da solo peso quasi come loro due, sono il terzo. Abbiamo discusso a lungo su chi riuscirebbe a tenere chi altri, in caso di caduta in un crepaccio, e non è occorso un genio per capire come sistemarci in cordata: l'abruzzese ci cammina a tratti davanti, a tratti dietro, il varesotto resta costantemente alle mie spalle. Il ghiacciaio opalescente si snoda davanti a noi mentre cammino senza difficoltà, tranquillamente, ammirando ora i due Tournalin, ora la Punta Perazzi che ci giunge al traverso sinistro: brutte nuvole ammantano il Rosa, ad est, e soprattutto i Breithorn, ad ovest. Superiamo la Perazzi ed i Breithorn si celano, ma la preoccupazione resta: questa volta no!, vorrei urlare, con molta più rabbia del ritornello di Gino Paoli. L'alba ufficiale sorge alle 06.30, ma indosso gli occhiali da sole già da diciassette minuti, per precauzione: abbiamo davanti pochissime cordate, una sola già sul Felik. Ci fermiamo sotto all'attacco del valico, a 3950 metri, e tutto è normale come se fossimo su una qualsiasi sella erbosa, mille metri più in basso: un po' di té? Una barretta, un Kinder? La quota, grazie? Sistemo inutilmente i ramponi mentre si fermano con noi alcuni italiani, una cordata di quattro: l'istruttore in nero comincia a preventivare una ritirata, le nubi sono brutte, da qui non vediamo bene.. E' come trovarsi ai piedi di un muraglione bianco e pretendere di sapere cosa succede nella piazza d'armi del forte. Conosco i miei amici e non sono stupito quando Marco riassume il suo pensiero in molte meno parole: Noi proviamo, poi quando siamo su si vedrà. Io avrei sottilizzato ancora di più, fumma che andumma, e bom.

Primo tratto ripido, verso destra.. Una piccola valanga ha lasciato un'esile "V" lungo la traccia, quando passo smuovo un cubo perfetto di neve, ma lontano dalla traccia. Pieghiamo in verticale per qualche metro, poi -cambio mano alla picca- puntiamo verso sinistra, ovest: più lungo. 4061 metri, Colle di Felik (N45 54.994 E7 48.191), 07.11 del mattino: tutto bene, siamo in gran forma, esito a dire la verità -questa salita costante mi ha rilassato, dopo i giri dei giorni precedenti. Purtroppo è un viavai di nubi: a tratti vedo la cresta S del monte, a tratti niente. Saliamo lungo la traccia, molto ampia, in assenza di vento: la prima anticima. 4150 metri, dice il GPS, sempre annidato sulla mia spalla come il corvo di Odino. Mi preoccupano i nuovi compagni di salita, sprovvisti di imbrago e, in un caso, perfino di piccozza: nei punti di minore visibilità continuo a urlare alle mie spalle un Com'è? al quale Alessandro, stizzito, risponde immancabilmente Bene!, pensando probabilmente ch'io lo prenda per un principiante. Discesa, vasto pianoro con bandierina rossa, risaliamo nel nulla totale.. Mi trovo a 4190 metri su un secondo dosso, scendendo nuovamente con una fugacissima visione del magnifico Gornergleitscher ad est, affrontando un ultimo tratto di cresta più ristretta ma non affilata, rispetto al 2004. Sarò cambiato io, la mia percezione dell'esposizione? Oppure la montagna, l'innevamento? Tutto mi pare più solido, più coperto, senza buchi o crepacci, grazie alle cospicue nevicate di quest'anno: che sia cessato il malvagio trend iniziato nell'afoso 2003, finalmente? Ed allora, cosa sono queste nuove roccette sull'anticima?

Venti Com'è? e molti passi più tardi, in equilibrio sulla cresta bucherellata dalle impronte, scorgo una risalita, lieve curva a destra: 07.45. Due minuti più tardi sbucano dal nulla gli italiani che pure ci hanno preceduti di pochissimo: al mio ennesimo buongiorno uno di loro si sfila il guanto e mi stringe la mano, tre volte, quattro volte. E tutti hanno le picche infisse per terra, le corde assicurate intorno, gli zaini.. Con ingenuità e sincera innocenza, mi guardo intorno: "Ragazzi, non può essere la vetta, ma scherziamo?", chiedo convinto ad Alessandro, che mi scruta con bonaria comprensione. Io invece sono serio al 100%: "Non può essere, siamo appena partiti", ripeto mentre nessuno mi ascolta. Il Castore in due ore? Ma se due secondi fa ho preso il waypoint del Felik? E le due eleganti anticime, i chilometri di cresta, che fine hanno fatto? Arriva in vetta, anch'egli da solo ma molto più attrezzato, un amico vercellese di Alessandro -il mondo, almeno quassù, è piccolo. Con la picca sapientemente legata alla vita da dragonne e cordino mi indica un metro più oltre: mi sporgo e vedo l'attacco della parete ovest del Monte Castore, la stessa gigantesca lama verticale che ho ammirato dal Polluce, quasi un mese fa. Sì.. Siamo in vetta: 4221, N45 55.253 E7 47.598, forse dieci metri quadrati di cui due terzi in pendenza, a nord. Davvero, questa volta. Solo allora mi unisco alle pacche sulle spalle, alle fotografie coreografiche, faccio girare la mitica fiaschetta Jameson proveniente dall'Irlanda, il tutto con lo zaino poggiato unicamente sulla mia caviglia destra -gli altri hanno occupato l'unico, minuscolo spiazzo disponibile. Poco sotto ecco la nuova targa a Don Bosco, e roccette affioranti; là davanti, lo Zerbion. Dove tutto è cominciato.

Ora sono le 21.48, a Champoluc piove. Ayas si è svuotata come l'Andrea Doria in quella famosa notte, al TG regionale si parla di ridurre il "Pratone" Varasc al rango di parcheggio per camper. Hermann Buhl mi guarda dalla copertina della mia copia -autografata da Kurt Diemberger, signori! - de "E' buio sul ghiacciaio". Un pastore tedesco che non gradisce Never Let Me Down Again dei Depeche mi fissa, sdegnato, sotto gli zaini. Cosa è rimasto di queste giornate, di quella magnifica e sinuosa schiena bianca, a parte la curiosa roccetta che uso come fermacarte? Siamo partiti alle 08.00 in punto, incrociando poche, altre cordate. Tutti stranieri e tutti di buon umore. Trenta minuti più tardi ho trattenuto gli altri al parossismo, pronto ad incatenarmi simbolicamente in segno di protesta (dove?) pur di immortalare lo spettacolo dei Lyskamm, la seraccata, la Vincent. L'amico varesotto che chiede di andare piano, di non correre e di aspettarlo, così come aveva chiesto lungo la "cresta affilata". Parla sempre pianissimo, devo sforzarmi per sentirlo: in fondo sono io ad avergli detto, dopo il Felik -in salita- "Qui non si vede niente, tu per carità stammi dietro e non fermarti se non mi fermo io, vabin?", e lui segue fedelmente il copione. Marco tira rabbiosamente la corda, non riesco a fargli capire che dobbiamo aspettarlo, probabilmente capisce ch'io sia nobilmente indignato per la nuvolaglia o per la sua fretta di scendere. So cosa gli preme, mentre si vendica tagliando i due traversi del Felik in pochi metri semi-verticali: arrivare al rifugio prima che il sole, ormai presente, tramuti in marmellata questo possente dorso bianco sotto di noi. La Perazzi si erge insospettabilmente erta, affilata ad ovest. Ricordo la discesa a passo di carica fino al ghiacciaio del Castore, in piano, ed il ritorno al Sella, 09.30: niente piazzola, il gestore sta dipingendo le strisce gialle dello helipad: foto di rito (siamo saliti in tre e torniamo in sei: io, Marco ed Alessandro, più l'amico vercellese, il varesotto e l'abruzzese, lanciatissimo) filmati, saluti agli alpinisti incontrati ieri a cena, mentre l'attrezzatura fa finta di asciugarsi. Festeggiamo con una lattina di Moretti portata fino a quota 4221 da Marco, per aprirla servirebbero gli artificieri. Scendiamo alle 10.36, arrivando alle 13.10 alla Bettaforca ed alla medesima panchina di ieri: ho sepolto così bene le scarpe di tutti che devo tornare a cercarle, Marco non le trova. Ripartiamo alle 13.45 arrivando a Resy per le 14.40, dove il gentile varesotto ci offre una Coca; a Saint Jacques ci presenta la sua famiglia, li saluto con piacere. Non capita tutti i giorni di incontrare un bambino con alle spalle la Becca Trecare.

Il Castore, in questo anno 2007, si è fatto desiderare... Una montagna così bella ed elegante, in fondo, può permettersi anche questo: forse le sarebbe convenuto un nome più femminile, allora. Molte vette e molte giornate in montagna sono trascorse da quel 15 luglio 2004: niente più fastidio per pendii inclinati, discese scivolose, creste affilate. Niente guide a trascinarmi di corsa per le nibelungiche conche pietrose del Sella, in discesa: ora corro anche da solo. Una salita molto più bella, con veri amici anziché sconosciuti, in completa autonomia, con il piacere d'essere tornati ad affrontare la montagna e, con il favore del meteo -unico elemento imponderabile- essersi scoperti all'altezza di ogni difficoltà. Fin troppo, forse.. La vetta è arrivata troppo presto, certo a casa della scarsissima visibilità: niente fatica, nessun problema, un breve saliscendi ed eccomi in vetta. Ecco spuntare due tedeschi dalla ovest. Ecco la gente sul Breithorn, il Polluce non ho fatto in tempo a vederlo.

Considerazioni? Una montagna magnifica, superba, alla quale tornerò sempre. E per quanto ci riguarda? L'abbiamo meritata, posso dire: due di noi sono saliti due volte da 1689 a 4000 metri, 4221 la seconda volta, solo per lei. Con tutto ciò che questo ha comportato -allenamento, peso, attesa snervante, spese ed anche qualche rischio: non siamo arrivati qui "di straforo", niente jeep e niente scorciatoie, nessuno ci ha portato lo zaino, né avremmo tollerato una qualsiasi mistificazione simile. E tuttavia.. L'impressione latente, quel Ma siamo già qui!?, persiste.  

Buoni propositi? Usiamo una frase fatta, per una volta.. Non c'è due senza tre. Alla prossima, monte Castore, perché fino a quando esisteranno montagne belle come te, ed ottimi amici fidati con cui metterci in viaggio, varrà la pena di guardare a nord da Champoluc.

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