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Breithorn Occidentale, giugno 2010

 

 

Una salita non preventivata, decisa in poche settimane e come sempre confermata dall'apertura delle funivie Cervinia-Plateau Rosa: il mio terzo ritorno al cospetto dei Breithorn, questa volta per accompagnare tre amici e, come sempre, per fare un po' di sano allenamento in uno stupendo ambiente d'alta quota.

Sabato 26 giugno 2010, ore 07.10, nel solito parcheggio di Cervinia: vestiti ed equipaggiati, barcolliamo alla volta della casetta in legno della biglietteria, quasi invisibile sul fianco sinistro del mastodontico spazioporto pronto a lanciarci verso Plan Maison. Una gradita sorpresa: malgrado l'esorbitante costo di 28 Euro per i non residenti, un gruppo di almeno cinque persone ha diritto a ben 8 Euro di sconto. Naturalmente, aspettiamo. Conosco bene la procedura, essendo salito al Breithorn Occidentale nel 2005 e, più recentemente, nel 2009. L'acciottolio di scarponi rigidi e semirigidi sui gradini a grata della funivia, l'accalcarsi nella prima, grande cabina con operatore; lo scossone iniziale, i tre cavi che spariscono in alto, i colpi di tosse ed il tintinnio di moschettoni, picche e materiali vari. Intorno, zaini colorati e cordini, matasse di corda e stemmi: pare che chi vada in montagna si rivesta di marche e piccoli crest, con aquile e picche incrociate, quasi a voler creare aggregazione ad ogni costo. Il biglietto elettronico ingoiato e risputato da tre serie di tornelli ed infine lo sbarco nel sole del Plateau Rosa; superiamo la fatidica e stinta riga gialla ed invadiamo la Confederazione Elvetica, salutati da un'orda di messaggi che danno il benvenuto in Svizzera ai nostri telefoni. Ricordando l'esborso del 2005, spengo senza remore il Blackberry, a sua volta al primo Quattromila.

Ci leghiamo ai piedi del rifugio Guide del Cervino, che naturalmente è aperto. Con me ci sono Elena, webmaster del blog Alpinismoandco.com, Stefano e Marco. Mentre quest'ultimo ha già salito la Ludwigshöhe, per gli altri due si tratterà del primo Quattromila, il-Quattromila-che-non-si-scorda-mai. Ciò malgrado, essendo tutti e tre esperti di arrampicata, si mostrano molto competenti nell'organizzare la delicata ed intrinsecamente complessa trama della cordata, senza trascurare niente. Soprattutto, mentre osservo il distante Cervino e le costruzioni da cui siamo appena sbarcati, nessuno di loro sembra soffrire il pur notevole sbalzo di quota dai 2000 metri di Cervinia. Partiamo alle 08.41, avendo impegnato un po' di tempo per legarci. Come ogni volta, si snoda intorno a noi la grande teoria di piste da sci del comprensorio italo-elvetico; quest'anno sembrano esserci meno sciatori, mentre (cosa strana) i giovani snowboarder sembrano tutti bardati di nero, senza colori scintillanti che guizzano a valle con gran spreco di polvere nevosa ed effetti Doppler.

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Sono legato insieme ad Elena, ben distante oltre i dieci metri di corda che ci separa, intervallata dai dondolanti nodi a palla: più volte mi strattona chiedendo di rallentare il ritmo, con il risultato che, ogni volta, mi fermo e mi volto a scrutarla per vedere cosa succeda. Ed ogni volta, ridendo, le urlo di rimando: Dammi una voce se accelero, non tirare! Cordata che vai, usanze che trovi. L'ordine del giorno è molto semplice e, ai miei occhi, perfettamente funzionale: ho messo in chiaro di non dover assolutamente essere considerato come "esperto" o capo-cordata o in qualunque altro ruolo di predominanza, portando semplicemente il contributo derivante dall'aver già salito questo monte e di custodirne la traccia nel GPS. In cambio, mi sono inserito nel loro sistema-cordata in tutto e per tutto: dalla lunghezza della corda al passo ridotto, li seguo, non li guido. Mi affascina profondamente lo scambio insito in questo rapporto: nuove persone, con mentalità ed abitudini culturalmente e soggettivamente diverse dalla mia, l'occasione di imparare qualcosa di nuovo. Mi affascina perfino l'accoppiata tra barcaiolo, prusik e nodo delle guide a frizione, sebbene abbia subito considerato questo sistema un po' lungo da sganciare, rispetto al mio modo di procedere.

Alle 09.25 raggiungiamo la galleria a quota 3665, incrocio di più piste, che quest'anno si supera all'esterno. Mi sento bene, anzi, mi vergogno quasi. Il ritmo richiesto dalla mia amica fa sì ch'io non possa nemmeno aprire il passo nella solita falcata, per non tirarla troppo: saliamo lenti, non faccio nemmeno fatica e mi godo il panorama. Intorno, molta, moltissima gente; pochi sono legati e quasi nessuno calza già i ramponi. Oggi metto in campo ben tre nuovi aggeggi, due dei quali costosi. Gli occhiali d'alta quota, i nuovi scarponi da alpinismo, per i quali ho dovuto far allungare la barretta dei ramponi, la nuova Canon; anche nel mio sistema-persona, dunque, ci sono nuovi spunti e nuovi arrivati. Alle 10.10 ed a 3804 metri varchiamo l'ultimo skilift che corre dal Klein Matterhorn alla volta della Gobba di Rollin, mettendo piede sull'immenso Breithornplateau; il panorama che si offre da quassù, superata l'ultima malevola presenza della civiltà di acciaio-rumore-sprechi è come sempre superbo, impossibile da descrivere a chi non l'abbia vissuto con gli occhi, sulla pelle, nel cuore. Un plateau bianco e sterminato, la grande gobba dell'Occidentale e del Breithorn Centrale, i Gemelli, il Polluce, la ovest del Castore, i Lyskamm, tutti in linea di fila: paiono bianche navi da guerra in una altezzosa rivista navale degli anni Trenta, prima del baratro. Il ghiacciaio e la colossale pinna bianca del nostro monte mostrano una sottile linea nera, ingannevolmente immobile, che evoca alla memoria inquietanti immagini della ritirata di Russia cantata dal bellunese Marco Paolini. Ma questi non sono alpini congelati, bensì esuberanti alpinisti italiani, in un coacervo di accenti e modi di legarsi: sfioriamo voci piemontesi ed insulti bergamaschi, chiacchiere e richiami genovesi, friulani, e tanti altri che non riconosco nemmeno. Intorno a noi quell'incessante parlottare e far cenno a film e passate esperienze comuni con cui i milanesi rivestono i momenti di pausa, quasi a voler far fronte comune innanzi al troppo silenzio. Impieghiamo un'ora per superare il plateau nel sole accecante.

Il meteo, nel frattempo, è perfetto: non stiamo scappando dal Don e non corriamo per spezzare l'assedio a Nikolajevka, nessuno corre il rischio di assiderarsi e nemmeno di portare a valle un comune raffreddore, semmai gravi ustioni solari. Più sotto, a quota 3948 metri, la grande pinna si assembra una cinquantina di persone, alcune sedute, altre sdraiate, altre in piedi in gruppetti, altre in paziente transito a destra e sinistra di questa sorta di Piccadilly; qui ci lambiscono parlate francesi ed aguzzi spunti monosillabici degli alamanni, secchi colpi di maglio dai biondissimi ed allampanati ragazzi slavi, mentre la neve riluce di picche e moschettoni. Sorrido tra me stesso, nel mio passo da risparmio energetico, pensando al probabile stupore dei miei tre compagni: come si troveranno, così attenti e precisi nel seguire i regolamenti degli istruttori, innanzi a cordate di quindici persone senza ramponi né picche, bensì bastoncini telescopici e pedule morbide? Cosa penseranno vedendo i sette componenti di questo CAI lombardo, che super or ora sotto al mio improbabile berretto floscio da Indiana Mark, privi di ramponi malgrado la pendenza cominci a farsi sentire? 

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Stefano mi pare affaticato, certo provato da quel caldo allucinante, in cui neve e ghiaccio paiono ondeggiare insieme alla forza di volontà: occorre molta motivazione, occorrono un buon mantra ed una fiducia in sé stessi a prova di lanciarazzi anticarro, per tener duro in queste difficili condizioni. Sono preoccupato. Abbiamo raggiunto l'affollata base del monte solo alle 11.15, è già tardi. Soprattutto, c'è troppa folla: ben tre tracce dipartono davanti e sopra di noi. La prima compie una dolce curva verso occidente, contornando aggraziata il perimetro inferiore del Breithorn, subendo quindi una forte impennata verso l'alto: scartata, non con Stefano in queste condizioni, certo non mentre devo centellinare le energie della mia amica. La seconda punta dritta verso destra, salendo ripida alla volta del colle tra i due Breithorn: scartata, troppo acuta, e non ne vedo bene l'uscita. Cosa faremmo se ci facesse uscire su una cresta di pericolose cornici, invisibili da quaggiù? Ci adattiamo dunque a percorrere Main Street, affollata come l'omonima a Gibilterra; mancano solo le scimmie ed i negozietti. Il caos avvolge me ed Elena, non ho idea di dove siano e come stiano Marco e Stefano. Gente: gente ovunque, sopra e sotto la pur diritta traccia. Cordate avanti e dietro di noi, dal plateau al cielo blu cobalto; grida e rumore, il tutto profondamente diverso, profondamente sbagliato, rispetto al quieto rumore degli alpinisti nel buio antelucano che ho sentito tante volte, lasciano il Quintino Sella verso il Felik, il Mantova verso la Punta Gnifetti o la bella Zumstein, il Guide d'Ayas al Lambronecca verso l'impegnativo Polluce.

Già, il Polluce, agosto 2007: questo caos ne ricorda l'imbottigliamento ai piedi del camino di roccia, quasi sotto alla Madonnina che ne premette la stupenda cupola nevosa sommitale. E poi, non è solo la quantità di persone ed il rumore di tanti idiomi. E' la somma di mille modi di fare, 999 dei quali paiono sgraziati e maleducati, inadatti a questo ambiente, fuori posto; le cordate non si salutano, ma si rubano il passo ai cambi di direzione, senza attendere rispettose che chi le precede abbia completato il passaggio. Bellum omnia contra omnes: i più allenati, stizzosi, violano lo spazio sacrale tra un membro della cordata e l'altro, intrecciando le corde, per correre avanti. Homo homini lupus: pochi vogliono scendere o salire fuori traccia, gli spintoni e le spallate non si contano, uomini e donne non si distinguono. Nessuno cede il passo a chi sale, come antica usanza in montagna, prima ancora che gli inglesi ne inaugurassero il turismo; nessuno saluta. Davanti a me ho una cordata di otto persone, ferme. Non so bene cosa facciano, vedo solo gli ultimi due, privi di ramponi ed armati di bastoncini. Non sono un purista, ed anzi per quel che mi riguarda potrebbero essere anche in ciabatte e shorts; bestemmiano, fradici di sudore, e non provano nemmeno a lasciar passare chi si trova dietro di loro. Forse hanno ragione, poveretti. Infinite cordate di giovani svizzeri scendono dalla cima, buttando neve su chi sta sotto, sfiorando la corda con i piedi, così che le cordate meno esperte e decise si fermano nuovamente per tema di precipitare giù dalla traccia... E siamo tutti bloccati.

Per quanto mi concerne, ne ho già abbastanza: fossi da solo doppierei a forza tutto questo branco, perché ho energia da vendere e sono anche arrabbiato, un ottimo connubio per provocare danni o per passare oltre gli ostacoli. Il mio mantra è scivolato a valle, dandomi un addio molto zen; se Elena potesse invertire il senso di marcia ed uscire dalla traccia, farei volentieri altrettanto. Non è questa la montagna che cerco e che amo; questo è un centro commerciale, una manifestazione di arroganza e menefreghismo, e la neve è punteggiata da cicche e cartacce multicolori. Mi volto e, semplicemente, Elena non c'è più. Al suo posto due stempiati teutonici, bassi e larghi, corazzati, massicci: se fossimo tutti riconducibili a degli animali, questi parrebbero due robusti cinghiali, testa bassa, avanti tutta, marsch. L'hanno spintonata e sorpassata, e dopo averla doppiata inserendosi nel troppo spazio tra me e lei, si son fermati perché non riescono a doppiare me e gli otto tizi davanti. Dulcis in fundo, il cinghiale numero uno pesta la mia corda. Ruoto sul tallone, lo sguardo omicida non supera i nuovi occhiali, ma la postura certo sì. Oh very sorry sussurra il panzer, come se servisse un very sorry per evitare di calpestare una sottile corda posta esattamente al centro di una traccia larga sessanta, settanta centimetri e ben livellata. Is it broken? I really did not want to break your rope, argomenta ancora.

Il momento si ripiega su sé stesso e non dico niente. Ormai è andata e forse dovrò buttare la corda. Ma, mi chiedo, la colpa è solo dei due tedeschi? Siamo tutti in coda a 4100 metri e tutti vorremmo sganciarci da questa massa di ingombranti bipedi per correre oltre. Io ho lasciato che la mia amica impostasse la cordata come preferiva, affinché si sentisse più sicura, nonché per inserirmi in modo rispettoso e pacifico nel loro gruppo. Ora dovrei stupirmi se la regola dieci metri e nodi a palla, in questo girone dantesco, ha portato ad avere il cantante dei Rammstein ed il suo clone sopra tutta questa corda a mare? Il tizio tippetta sul mio zaino, proponendomi ancora: Maybe I can pay for what I damaged. Qualche metro ancora, pausa, bambini a destra e sinistra, una signora squittisce vedendosi vicina al baratro!, altri si stufano e scendono tranquilli lungo quello stesso baratro, abbandonando l'ingorgo con un bel Mandi ed un saluto. E' dura. E' dura per chi non va mai in montagna e s'è fatto incastrare in questa impresa, è dura per gli istruttori che hanno la responsabilità di tenere uniti i loro discepoli, è dura per i cinici individualisti come me, che a questo punto vorrebbero levare le tende.

Alle 12.25, dopo quasi quattro ore di tormentata salita, io ed Elena siamo in vetta all'Occidentale. Lei mi sembra felice, e la cosa mi scalda un po': forse dopotutto è valsa la pena di ingoiare tanto caos, tanta umanità, per questo. Grandi cumuli lattei sorgono sopra Cervinia, il resto del mondo è limpido e turrito, le vette scintillano al sole; il cielo è blu cupo, bellissimo ed alto. Pulito. La vetta è ingombra. Ho raccolto da tempo bracciate di corda, per non farla incagliare in altri ramponi svizzeri o italiani; all'apice della cima ritroviamo i due tedeschi, giusto intenti a sparare i tappi in sughero di due mignon di Prosecco verso l'Italia ed il Gornergleitscher. Il tedesco propone ancora di pagare per quel che ha rovinato. Forse vuole che pesiamo i dieci centimetri di corda che ha ramponato, consultando un team di esperti per trovarne l'esatto costo? Li mando a quel paese senza remore, mentre un tappo rotola ancora cento metri a valle, destinato a restarci per raccontare ai posteri che bella civiltà abbiamo saputo creare nel Duemila.

Scattiamo fotografie, giro un video in HD per raccontare quel che abbiamo vissuto quassù, ma non gusto appieno la sensazione di vetta: non riesco a staccarmi dal conglomerato umano della città, del rumore, della gente. Madre e figlia in cappottino e calzamaglia, squillare di telefoni, cracchiare di radio e walkie talkie, giusto per far sapere a chi è sotto che noi siamo sopra. Una foresta di sci, simili alla palizzata romana intorno ad Alesia; bucce d'arancia buttate per terra, nella convinzione idiota che tanto sono naturali, come se introdurre roba simile in un ambiente glaciale fosse giusto. Ciò nonostante, Elena pare contenta, è bello vederla.         Dopo circa venticinque minuti compare anche Marco, che è stato bravissimo nel motivare ed assistere Stefano fino alla vetta; quest'ultimo ha compiuto un vero sforzo di volontà, ed ora siamo tutti insieme al cospetto del Gornergleitscher. E' un momento piacevole che premette una discesa lunga, lenta, allucinante; l'amico si sente poco bene, la gente affolla la traccia, riusciamo a prendere l'ultima corsa delle 15.45 per la bellezza di cinque minuti. Anche qui, ho commesso un secondo errore. Non conoscevo l'esatto orario di chiusura degli impianti, pensando che fosse previsto per le 16.00, come nel caso della funivia per Zermatt. Quando mai ho dovuto correre dietro una funivia o rischiare di perderne l'ultima corsa? Conoscevo bene meteo ed orari di partenza, ma non quello dell'addio alle armi. Ho trascinato di peso Elena negli ultimi dieci metri: di peso. Quando mai capita di usare una simile... Violenza nei confronti di una ragazza, oltretutto un'amica? Boccheggiamo in funivia, fradici per lo slancio finale. Magia ha voluto che anche Marco riuscisse a portare Stefano a bordo in tempo, salutati dall'antipatia totale dell'operatore, che ci risponde di malavoglia e sgarbatamente.  

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La morale, penso stordito dal caldo al Nigra di Montjovet, chiacchierando con la mia amica Elisa che ne ha la gestione, è semplice. La montagna non è solo quell'antico e meraviglioso sistema-ambiente in cui preparazione, motivazione, cautela, rispetto, umiltà e fatica portano ad incommensurabili risultati. Non è solo l'alba che erompe da una chiostra di vette, il saluto di una cordata incontrata nella solitaria immensità del Colle Gnifetti, non è solo il sublime piacere dell'esplorazione in compagnia di un amico fidato. A volte, è anche discesa nelle nebbie di un'umanità ansiosa, egoista, frenetica, incapace, stranita, fuori posto: e quando si finisce sul fondo di tanto astio, quando più si vorrebbe essere altrove, emergono il carattere e la resistenza di ognuno di noi. La montagna, in fondo, è anche questo. Tener duro e comportarsi bene, restando fedeli a sé stessi ed ai propri amici, fino al prossimo giro.

Dedicato, dunque, alle nostre due cordate, all'amicizia che ci ha uniti ed allo sforzo comune di questa giornata di sole, calore e follia urbana a più di 4000 metri.. Con i miei complimenti a Stefano, Elena e Marco.

 

 

Dichiarazione d'intenti presente alla pagina Warnings & Welcome

 

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