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L'abate Amé Gorret

"L'abbé Gorret è noto a tutti gli Alpinisti e ben pochi sono quelli che hanno potuto sottrarsi ai suo sarcastici strali!; il brav'uomo è tutto di un pezzo, ma chi lo solletica, e soprattutto a chi gli presenta l'occasione, la sua lingua, se non punge, taglia, e qualche volta porta via il pezzo! Guai a chi vuol fare dello spirito con lui e soprattutto a chi non gli sa tener testa: è un uomo perduto!"

 

Amé Gorret. L'uomo, il sacerdote, il montanaro indomito

Queste poche righe, ironiche e ammirate, scritte nel 1904, possono introdurre l'eccezionalità di un personaggio tuttora ricordato in Val d'Ayas e in Valle d'Aosta.

Come molti suoi conterranei del periodo compreso tra l'Ottocento e il Novecento, Amé Gorret nacque e crebbe con le caratteristiche tipiche dei montanari di una volta: povertà, attitudine al duro lavoro dell'accudire la terra e le bestie, orizzonti forzatamente limitati (in senso non solo fisico e tangibile) da quelle stesse montagne ai cui piedi vivevano e morivano.

Tuttavia, nel caso di Gorret, la vita ebbe una svolta forse difficilmente preventivabile: la carriera ecclesiastica che, se così spesso ne limitò i forti istinti e le forti passioni, forgiò un carattere destinato a lasciare una netta impronta nella storia della sua Valle. Il figlio di montanari divenne un uomo allo stesso tempo colto ed intelligente, valoroso ed appassionato della scrittura, un uomo che mai avrebbe dimenticato le sue amate montagne, la sua lotta per coniugare la montagna ad un turismo più "etico", la forza delle sue convinzioni.

Un uomo la cui vita è stata tanto movimentata e burrascosa da creare addirittura leggende sul suo conto; uno scrittore arguto e brillante, spesso ironico, che rappresenta emblematicamente la vicinanza, tra '800 e '900, tra ecclesiastici valdostani ed esponenti del mondo alpinistico. E' il 26 ottobre 1836, a Valtournanche, quando nasce Amé Gorret: più precisamente, nella piccola frazione di Montaz-Dessus. Il padre lavora come guida e si chiama Jean-Antoine Gorret, la madre è Marie-Véronique Carrel. Amé, ultimo di sette fratelli, è gracile e molto debole. Tuttavia sopravvive alla prima infanzia, frequentando la scuola del borgo, dove conosce il severo curato Bore: di lui, più tardi, scriverà "(…) la mia guida e la mia bussola", in occasione della sua morte, nel 1858. Il suo vicario, tale Jacquin (a Valtournanche dal 1845) si prende cura del ragazzino e gli insegna a scrivere con un metodo curioso, resosi indispensabile per via del costo della carta: una pietra calcarea molto liscia, e per inchiostro una mistura di bacche del sottobosco raccolte da Amé. Il ragazzino è promettente e, su consiglio dei religiosi, la famiglia lo invia in collegio nella lontana Aosta, al Sant'Orso. 

Qui Amé impara ad apprezzare fortemente la filosofia e l'algebra, la geometria e la fisica, mentre con il tempo scopre di odiare gli abbellimenti barocchi che all'epoca contraddistinguevano lo stile scritto. Egli possiede uno stile diretto e sanguigno, capace di rendere molto efficacemente le immagini; ama il latino e non china il capo alla "schiavitù della lingua francese", lingua correntemente utilizzata in quelle terre. Soprattutto, il giovane Gorret (per quanto irruento e vivace come qualsiasi altro ragazzo) non accetterà mai la visione razionalista e riduzionista del mondo. Ciò caratterizzerà sempre il suo pensiero: Gorret diverrà infatti un uomo amante del progresso, capace di coglierne i benefici, ed allo stesso tempo sempre accanito difensore delle verità dogmatiche sostenute dalla Chiesa, nella sua visione più ortodossa.

Dopo cinque anni presso la Collegiata di Sant'Orso, però, il giovane si trova a dover compiere una scelta: se ne rende conto, scrive, quando il padre gli chiede cosa abbia intenzione di fare, durante una vacanza. "A casa non c'è pane per tutti". La scelta cade sul sacerdozio, dopo un'iniziale interesse verso la professione del medico, ed Amé entra nel Gran Seminario di Aosta, in cui vivrà anni felici. Ama profondamente i libri e la cultura, le dotte discussioni con i superiori o i compagni di seminario, nel più totale disinteresse verso i turbolenti avvenimenti che, attraverso i giornali e le notizie portate dai viandanti, scuotono perfino la remota cittadina. Qualcuno, là fuori, sta lottando per un sogno politico e sociale talmente ambizioso da risultare spesso incomprensibile a livello locale: unificare genti completamente diverse tra loro sotto un unico vessillo, in un unico Stato, che non debba mai più cadere sotto le mani avide di nemici stranieri. Un progetto che, in Europa, è stato tentato solo dalla Prussia.

Trascorrono cinque anni di seminario, che Gorret non avrebbe mai voluto lasciare. Tuttavia non può rimandare oltre ed a venticinque anni, il 25 maggio 1861, è ordinato sacerdote dal vescovo di Ivrea, Louis Moreno. Si reca come vicario allo Château, il capoluogo della valle di Champorcher, che ricorderà come "La mia seconda patria". Proprio durante questo primo viaggio, il giovane vicario incontra per la prima volta il sovrano Vittorio Emanuele II, il primo agosto 1861. A Champorcher trascorre tre anni tranquilli, nell'amicizia del curato, assieme al quale restaura il cimitero e la sacrestia, inaugura nuovi altari, fonde nuove campane. Tuttavia il suo destino è altrove: nella primavera del 1864 si reca a St. Pierre, dove sarà vicario per otto mesi, e nel 1865 a Cogne. Qui si trova in difficoltà: gli muore la madre, Marie-Véronique Carrel, mentre a Cogne è preso in antipatia dalla popolazione che non vuole lasciar partire l'ex vicario, cui è affezionata. Vengono sparse voci diffamanti sul conto di Gorret, mentre un'ambasceria si reca a chiederne la revoca dal ruolo di vicario. Tutto inutile.

A Cogne, nonostante il pessimo benvenuto, Gorret non avrà troppe difficoltà ad intendersi con il suo parroco, Balthasar Chamonin, anch'egli un alpinista, anzi il primo salitore della Grivola. Il sacerdote incoraggerà Gorret, unitamente ad alcuni amici del CAI, a scrivere delle sue esperienze in montagna, contribuendo così alla sua fama di alpinista. "E' con il vicariato di Cogne che ebbero inizio le mie grandi escursioni sulle montagne e il mio gusto nel descriverle", commenterà successivamente il giovane sacerdote nelle sue memorie. Gorret, ormai divenuto un uomo adulto ed imponente, si preoccupa anche di conoscere meglio la terra ed il popolo che gli sono stati destinati ad Aosta. Cogne, spiega, era ricca per via della sua miniera di ferro di Liconi, poi acquistata per 200.000 Lire da una società belga e, in definitiva, causa del declino e della dispersione dei cogneins. Il carattere di questa gente lo colpisce al punto da fargli redigere un racconto, Excursions à Caractérisopolis, poi perso.

Nel 1866 gli viene ordinato un altro spostamento, questa volta a Valgrisenche, sotto il Rutor. Qui non sussiste il buon rapporto che aveva a Cogne con il suo curato: il parroco, l'ayassino Blaise Couronné Prince, "(…) considerava i vicari come spie dei superiori e festeggiava con grandi banchetti il giorno della loro partenza". Gorret si sente inutile, condizione particolarmente dolorosa per uno spirito irrequieto come il suo: "Non avevo assolutamente niente da fare, il curato voleva fare tutto da sé". Saranno dunque due anni ed un mese di disagio, ravvivati da alcuni articoli, in formato di lettere, inviati al bollettino periodico del Club Alpino. "Vi propongo qualche escursione in Valgrisenche.." 

Nel luglio 1867, Amé Gorret rinuncia alla scalata del Monte Bianco per obbedire al suo vescovo che lo invia all'ultimo momento a Châtillon, sconvolta da un'epidemia di colera che provocherà 78 decessi, colpendo anche Aosta e Nus. Gorret vi permane fino all'ottobre 1868, per quelli che definirà successivamente "tre mesi di forte impegno". Nel 1869 Gorret conosce anche una parentesi didattica, insegnando al monastero di Saint Gilles, a Verrès, dove molto tempo prima morì Piero d'Introd sfidando il Duca di Savoia per amore di Caterina di Challant. Qui egli applica in concreto le sue opinioni innate: secondo il Deffeyes, Gorret vedeva la religione come un appiglio che si offre allo scalatore per aiutarlo a restare in parete, e per "religione" intendeva la più stretta dottrina promossa dalla Chiesa Cattolica romana. "

Roma è l'immortale depositaria della tradizione politica, letteraria e religiosa", scriveva infatti il sacerdote valdostano che mai aveva visitato quella lontana città, ribadendo la sua diffidenza per l'aria di rinnovamento che, grazie alla nuova svolta politica e militare della Penisola, stava lambendo perfino la remota Valle d'Aosta. Tuttavia non sconfessava affatto la ragione, concludendo salomonicamente "C'è lo stesso pericolo nell'annientare la ragione che nel farla regina: credere che la ragione sia tutto è negare Dio, ma credere che la ragione sia nulla è negare l'uomo". E' il 29 agosto 1869 quando Amé Gorret, ormai conosciuto nell'ambiente alpinistico e da tempo socio onorario del Club Alpino Italiano, è invitato al Congresso dell'omonima istituzione, a Varallo Sesia, dove si presenta con un'acuta relazione dal titolo "Le montagne che ci separano sono le stesse che ci uniscono". Nel corso della sua esposizione Gorret attacca il pregiudizio che, allora, voleva l'Italia priva di uguali in termini di arte e cultura, ma seconda ad altri Paesi per ambiente e montagne: quest'ultimo punto provoca il forte disprezzo dell'oratore, che giunge a rilevare "Non sono forse nostri i giganti delle Alpi?"

Anche la gioventù di allora è criticata da Gorret, poiché essa "(…) rifugge la fortificante fatica dell'alpinismo, vive troppo degli splendori e della gloria del passato, ignora la montagna e i suoi vantaggi, non conosce il ghiacciaio che per sentito dire e crede di aver fatto chissà che cosa solo per aver toccato la neve in luglio o in agosto". Dietro le sue parole, tuttavia, c'è ben altro: la consapevolezza di trovarsi al cospetto, per la prima volta, di eruditi e preparati uomini provenienti da tutte le zone vicine e lontane della nuova Italia, convenuti a Varallo Sesia sotto l'egida di quel rinnovamento voluto dal Piemonte e destinato a creare un'unica entità politica. Gorret, come ben notava Gianni Valenza, aveva compreso che la sua amata Valle d'Aosta avrebbe potuto ricavare grandi benefici da questa nuova situazione unitaria, in termini di strade, tecnologie, ferrovie, turismo e cultura... In altri termini, progresso. Nelle parole di chiusura di Amé Gorret sembra quasi di poter leggere lo slancio derivato dal dinamismo di quel momento storico, una sorta di nazionalismo pacato e profondo, rivolto soprattutto alle montagne: "Ma le nostre montagne, tutte le nostre più alte montagne ci sono state "soffiate" dagli intrepidi figli dell'indomabile Albione!" La conclusione del discorso rientra completamente nello spirito di unitarietà che permea l'assemblea: "Ebbene, l'affollata e importante assemblea a cui ho l'onore di rivolgermi mi dice che le barriere non ci separano più, ma sono precisamente queste montagne, sono questi colli, sono questi stessi ostacoli che ci hanno riuniti qui. E allora! Riuniamo i nostri sforzi, studiamo la nostra bella Patria, che il lavoro di ognuno serva a tutti gli altri, e che i risultati di questo lavoro diventino per mezzo del Club Alpino il patrimonio delle masse, la prosperità materiale e morale delle valli più arretrate." A questo punto, l'oratore torna a parlare della gioventù, di quella gioventù che avrebbe materialmente creato l'Italia del futuro: "Spingiamo la gioventù verso i monti, là vi troverà esercizio, forza e solidità di carattere, i piacere puri e duraturi che essa va cercando vanamente altrove".

Quasi un anno esatto più tardi, il 28 agosto 1870, Gorret si venne a trovare a Domodossola in compagnia dell'inglese Richard Henry Budden, benefattore della Valle d'Aosta da lunga data, per presenziare ad un nuovo congresso del Club Alpino. Gli echi dell'entusiasmo unitario dell'anno precedente, così promettente di nuove esplorazioni ed ascese, non si erano spenti: tuttavia, quando venne il suo turno, Gorret stupì profondamente l'uditorio con un duro attacco alle guide alpine. La sua intransigenza verso i costumi ed i comportamenti da lui ritenuti esecrabili è nota, e lo spinse a spiegare come, dopo la prima ascensione del Bianco da parte di Balmat e del dottor Paccard, le guide si fossero trasformate in "tiranni" arrogatisi il diritto di scegliere a priori orari, percorsi, onorari e via dicendo. Gorret rivendica con forza, invece, il diritto basilare del cliente a poter scegliere, a poter decidere il passo da tenere, perché lo scopo principale dell'intero rapporto guida-cliente è fornire a quest'ultimo un periodo di serenità, contemplazione, confronto con sé stesso. Non una maratona in cui tutte le tappe sono già state inderogabilmente pianificate da persone terze. "Alla guida si affida tutto ciò che si ha, lo zaino, gli strumenti, il portafoglio e la vita stessa", sostenne infatti Gorret. "Che si esigano dalle guide una fedeltà e una  moralità irreprensibili".Gorret estende la sua critica all'intero popolo valdostano, a quel popolo cui appartiene: "Il valdostano deve imparare a conoscere e ad amare il forestiero, e non deve giudicarlo come si fa con i commessi viaggiatori". Un discorso, come si evince facilmente da questi esempi, destinato a destare grande stupore in coloro che lo ascoltarono, forse convinti di potersi aspettare argomenti meno diretti e, sicuramente, non contrapposti a personaggi del mondo di Gorret quali le guide o lo stesso popolo della Valle d'Aosta. Il marzo 1873 lo vede approdare, dopo l'ennesimo trasferimento, a Lillianes, in una terra dura e scoscesa.

Tra il 1875 ed il 1876 è invece vicario a Perloz, dopodiché viene sostituito da un giorno all'altro, senza il minimo preavviso. Il 1876 vede però anche la pubblicazione, a Torino, della prima guida della regione valdostana: si tratta della rarissima Guide Illustré de la Vallée d'Aoste, che Gorret ha redatto insieme al barone Claude-Nicolas Bich, acquisita da Varasc.it nel 2020, dopo circa dieci anni di ricerche. Un lavoro importante e destinato ad avere grande eco nell'ambiente alpinistico di allora: in questo contesto si inseriscono ampiamente le moderne visioni di Gorret sul turismo, mezzo di avvicinamento tra montanari e cittadini, volto ad arricchire spiritualmente i secondi ed a garantire un sostentamento ai primi.

Niente a che vedere con il turismo in voga all'epoca e, forse, anche in tempi più recenti: "I turisti partono con il treno più diretto e vanno al gran galoppo fino alle montagne; per strada non vedono niente, perché non possono perdere tempo". Per Amé Gorret, il turista vuole essere un viaggiatore, una persona che ama il cammino ed i piccoli disagi che esso comporta: "Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato". Una frase che oggi, dove sempre più spesso nuove cosiddette opere architettoniche assediano la montagna, è emblematica. Il 1878 lo vede in una nuova parrocchia, ancora come semplice vicario, a Gignod, sotto la mole dell'Emilius. In quest'anno termina un altro lavoro letterario, questa volta incentrato sulle abitudini e le imprese del sovrano appena scomparso, il Victor-Emmanuel sur les Alpes.

Nel 1880 è vicario a Champdepraz, presso San Francesco di Sales, da gennaio ad ottobre. Al ritorno, il parroco non lo pagherà nemmeno. E tra le infinite peregrinazioni del robusto ecclesiastico così chiacchierato e, forse, temuto nella Curia aostana, riecheggiano le sue stesse parole: "Io credo ancora all'anima della terra e alla sua azione su di noi; può trattarsi dell'anima spirituale, o di un'altra entità indefinibile, ma è quel sentimento che infine sa rendere tutta la poesia del viaggiare, questo atto altrimenti ridicolo, questa gara tra due piedi per passare sempre l'uno davanti all'altro". Nel 1881, Gorret trascorre un sereno Natale presso gli amici torinesi, prima di imbarcarsi in un'avventura oltre frontiera. Desiderando visitare il Delfinato si era infatti rivolto all'avvocato Henri Ferrand di Grenoble, il quale aveva mediato un permesso per il sacerdote di Valtournanche presso l'arcivescovo del posto, monsignor Fava. Per la prima volta, questi aveva nominato Gorret curato di una piccola parrocchia, S. Martin de Clelles, vicina al Mont Aiguille. Dopo pochi mesi, nel 1883, Gorret riesce a farsi spostare proprio dove desiderava: Saint Christophe en Oisans, nella cui zona compirà svariate ascensioni.

L'esilio a Saint Jacques

Il 1884, però, vede la fine di questo periodo più lieto. Il 24 marzo aveva nuovamente chiesto all'avvocato Ferrand di intercedere per uno spostamento di sede, quando apprende la notizia che da Parigi è stata decretata l'espulsione di tutti i sacerdoti stranieri. Il 20 settembre valica nuovamente il passo del Piccolo San Bernardo, rientrando in patria, dove però lo attendono ancora (dopo ben quattro anni!) antipatie e invidie. La popolarità, il successo di Gorret presso i colti circoli intellettuali ed alpinistici dell'epoca, i suoi scritti, la sua irruente schiettezza, i suoi modi di fare così poco ortodossi e rispettosi del comune modo di vivere ecclesiastico di allora lo rendono fastidiosamente scomodo: questi motivi decidono il suo allucinante e lunghissimo esilio, che durerà ben ventuno anni, nel remoto borgo di Saint Jacques des Allemands, in Val d'Ayas. Amé Gorret è scomodo per via del suo anticonformismo che valica i confini della canonica, per la sua voglia di fare, per il suo piglio unico di affrontare le avversità e di confrontarsi con il proprio prossimo.. Tutto questo in un periodo ed in un ambiente che non sopporta queste attitudini comportamentali. Sono questi, in definitiva, i motivi dell'esilio ayassino. Si vengono così a troncare, nel momento meno opportuno, circa cinquant'anni di studi, capacità, conoscenza, intelligenza. Ci si chiede cosa non sarebbe potuto diventare Amé Gorret se non gli fosse stato ordinato di chiudersi in un eremo proprio quando era all'apice della sua capacità produttiva: quali opere non avrebbe potuto lasciarci, quali imprese alpinistiche non avrebbe potuto realizzare ancora.  

La chiusura forzata nell'eremo ayassino è umiliante per un uomo così attivo e capace. Il passare degli anni, le poche e misere incombenze che gli sono affidate (come l'insegnamento ai bambini, poiché la comunità non poteva permettersi un vero maestro) mortificano in Gorret l'anima del dotto conferenziere dei congressi del CAI, dello scrittore, dell'alpinista, dell'uomo abituato ad affrontare di petto le difficoltà della vita. Una marmotta addomesticata ed un corvo, che poi gli verrà ucciso dalle parrocchiane, erano la sua unica compagnia. Percorreva ancora i ghiacciai e le montagne, ed ogni tanto la Regina Margherita veniva a trovarlo dalla vicina residenza di Gressoney; ella gli commissiona quattro messe all'anno, pagandole 400 Lire l'una, e perfino re Umberto gliene fa dire due, a 1000 Lire l'una. Erano in realtà poco più che aiuti economici per quello che, in molti ambienti alpinistici, era visto sempre più come una sorta di titano rinchiuso nel Tartaro: un Tartaro bellissimo ed alpestre, certo, ma tremendamente isolato. Pochi amici lo raggiungevano ancora, ormai; probabilmente soffriva gravemente di disturbi legati all'alcolismo.

Nel 1890, di ritorno da Gressoney, un attacco improvviso lo colpì mentre attraversa la zona della Bettolina, paralizzandolo per una settimana. E' la fine delle imprese alpinistiche di Amé Gorret. Nove anni più tardi la Tipografia Commerciale di Biella gli pubblicò, insieme a Giovanni Varale, la bella e rara Guida illustrata della Valle di Challant o d'Ayas.

Il declino fisico

E' nel medesimo, oscuro periodo che cresce il mito dell'Orso della montagna, dal soprannome adottato dallo stesso Gorret in una lettera dell'11 giugno 1890 al giornale Valdotâin riguardante la tutela del linguaggio francofono in Valle d'Aosta. Successivamente si era anche firmato "L'Ermite de Saint-Jacques", delineando chiaramente il suo pensiero circa la propria condizione di esiliato, mentre l'eco provocato dalle sue imprese e dal suo modo di fare sfumava lentamente nelle tante leggende che parlavano delle sue colossali bevute, del suo comportamento ieratico, del mistero di quel grand'uomo "sepolto" in una delle zone allora meno conosciute della regione. Nell'agosto 1898, la regina Margherita incontrò ancora Gorret a Saint Jacques, scendendo da Gressoney per il Colle Ranzola. In questa occasione donò al sacerdote il famoso alpenstock che egli avrebbe sempre conservato con grande cura, lo stesso che appare nelle fotografie degli ultimi anni di vita del sacerdote della Valtournanche.

La vecchiaia di Gorret, forse accelerata dal peso dell'isolamento e dall'alcool con il quale si confortava, fu inclemente con un uomo così amante della vita all'aria aperta, dei grandi spazi, della grandiosità alpina. Un primo colpo gli derivò nel 1902, con la cecità che lo costrinse ad un intervento all'Ospedale oftalmico di Torino, nel 1903. Gorret ritornò quindi a St.Jacques, nel suo eremo, dimenticato da tutti finché, nel 1905, venne trasferito nel priorato di Saint Pierre, in compagnia degli abati Ménabréaz e Cerlogne. Le giornate trascorrevano scandite dalle ombre familiari della Grivola, del Rutor e dell'Emilius, ma ancora nel 1906 il vescovo gli vietò la partecipazione al ritiro del clero, per evitare che Gorret "distraesse" gli altri sacerdoti presenti. Come si vede, l'abate Gorret rimase un "prete scomodo" fino alla fine dei suoi giorni, restando fedele e coerente agli ideali ed al comportamento di una vita intera. Amé Gorret morì il 4 novembre 1907. E' sepolto nel priorato di Saint Pierre, insieme ad altri otto abati; nel 2007 è ricorso il centenario della sua morte, ricordata con un convegno a Champoluc, il 18 agosto. Particolarmente interessante, inoltre, l'articolo dedicato all'"Orso della montagna" da parte del Presidente del Club Alpino Italiano, Annibale Salsa, ne "La Rivista" di novembre - dicembre 2007: "L'Abbé Gorret ed il Club alpino delle origini: dalla tradizione valligiana alla modernizzazione turistica nel segno dell'alpinismo"(pp. 22-24).

Amé Gorret, l'alpinista   

Uomo di carattere e di polso, forte nelle proprie convinzioni quanto nell'affrontare la montagna e la vita, Amé Gorret non può essere ricordato da una semplice biografia, per quanto ammirata. Non è opportuno limitarsi ai meri cenni biografici o agli infiniti spostamenti cui fu "condannato" durante la sua carriera ecclesiastica, perché Amé Gorret, colui che divenne l'Orso della montagna, era innanzitutto un alpinista. Il valore delle sue imprese pionieristiche, la sua abnegazione, il suo profondo entusiasmo verso la montagna renderebbero ingiusto terminare un discorso incentrato su questo eccezionale personaggio con il triste declino della sua vecchiaia, con la sua morte solitaria. Ecco, dunque, che s'impone un passo indietro nel tempo: un ritorno agli anni che videro l'abate Gorret nel pieno del vigore, gli anni delle sue imprese alpinistiche.

E' l'estate 1857 quando Gorret, allora seminarista, si trova in vacanza. Egli ha intenzione di tentare una grande impresa, insieme al cacciatore di camosci Jean-Jacques Carrel ed a Jean-Antoine Carrel, il quale nel 1849 aveva combattuto a Novara nei ranghi piemontesi. Ma il momento storico e l'interesse verso quella montagna imponente obbligano a mantenere segreto il progetto: i tre partono dopo aver lasciato intendere soltanto una normale caccia alla marmotta. La loro impresa è parzialmente coronata dal successo, nonostante le evidenti difficoltà (acuite dai materiali di quell'epoca indubbiamente fervida di entusiasmo ma pionieristica) ed i tre scalatori raggiungono, per primi, la Testa del Leone, a 3700 metri. Sarà tuttavia nell'estate del 1865 che i molteplici tentativi di scalata al Cervino avranno successo, grazie alla tenacia ed alle capacità di Edward Whymper. La storia è nota: il 14 luglio il londinese ed i suoi compagni saliti da Zermatt conquistano la vetta, mentre appena più in basso la cordata italiana, guidata da Jean-Antoine Carrel, li scorge affranta dal Pic Tyndall. A nulla sono valsi i tentativi di precedere il britannico, la cui vittoria sarà comunque funestata dalla morte di quattro dei suoi compagni, in discesa. Anche Amé Gorret ha partecipato a questa storica "prima", sebbene seguendo la scalata dal Corno del Teodulo. Ma il 15 luglio, il giorno successivo alla sconfitta italiana, Jean-Antoine Carrel decide di risalire e conquistare a sua volta la vetta, poiché si tratta di una questione d'onore. La presenza del giovane sacerdote è gradita: "Oh! S'il y a l'abbé, alors victoire!"  

Il 16 luglio i due partono alle 06.30 dal Breuil, accompagnati da Jean- Baptiste Bich e Jean- Augustin Meynet. Alle nove di mattina traversano al di sotto della Testa del Leone senza incontrare neve, superando poi lo ciarfiou, il camino. Alle 13.00 si fermano sotto la Grande Tour per la notte. Il 17 luglio, alle prime luci, rivela ancora il bel tempo dei giorni precedenti. Purtroppo, nonostante gli sforzi, la cordata si trova bloccata in un colatoio a pochissima distanza dalla vetta, in un punto oggi attrezzato: Gorret deve sacrificarsi e, di buon grado, cala di circa otto metri Carrel e Bich, i quali poco dopo escono in cima passando dalla cresta di Zmutt. Lo sfortunato religioso resta lì, dopo aver calato gli amici, consolandosi cercando di ideare un sistema più efficiente per calare in sicurezza alpinisti e, in futuro, quei touristes a cui dovrà tanto il futuro della Valle d'Aosta. "Mi avessero coperto d'oro non mi sarei rassegnato: ma si trattava di un sacrificio, e lo feci. Piantando i talloni sull'orlo del baratro, la schiena appoggiata alla parete, le braccia chiuse sul petto, calo due dei miei compagni, uno dopo l'altro, mentre il terzo rimane con me..". Il panorama appena conquistato (nuvoloso in Valtournanche, sereno in Svizzera dall'altro versante) non vale certo a compensare il povero Gorret della mancata puntata in vetta, dopo tanti sacrifici. I quattro ritornano in tenda alle 21.00 circa, sotto la grandine, mentre il giorno successivo si farà grande festa al Breuil. Amé Gorret, colui che sarebbe diventato l'Orso della montagna, salì molte altre vette. Fu alpinista per nascita e per vocazione, per passione e per amore delle alte quote. Tuttavia ci piace concludere in questo modo la breve immagine di quest'uomo forte e schietto, così poco adatto alle piccole ipocrisie e falsità di una vita condizionata: con la figura emblematica dell'alpinista che pur essendo disposto a qualsiasi cosa per conquistarsi un posto in vetta, dopo tante fatiche, rinuncia e permette ad altri compagni di andare avanti.

Questo fu Amé Gorret, l'Abbé Gorret, un uomo semplice e profondo che non è stato dimenticato.

 

Nota importante: in occasione del centenario della scomparsa dell'Abbé Gorret, a Champoluc si è tenuto un interessante incontro, il 18 agosto 2007, nell'ambito del quale è stata approfondita e rivista la tematica inerente alla vita ed alle opere di questo singolare sacerdote, parroco per ben ventun anni a Saint Jacques. La figura del sacerdote rivive anche nell'opera di Giuseppe Mazzotti e nel testo Amé Gorret. L'Ours de la Montagne realizzato nel 1987 da Efisio Noussan ed Aldo Audisio.

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