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Piramide Vincent, anno 2010

Domenica 04 luglio 2010, nell'ambito di una salita di allenamento e di analisi storica (volta, in quest'ultimo caso, nei confronti dell'antistante isolotto roccioso del Balmenhorn), Varasc.it è ritornato in vetta alla bella Piramide Vincent. La cima, alta 4215 metri, era già stata salita nell'aprile 2007, venendo quindi sfiorata in varie occasioni: durante le salite alla Punta Gnifetti, alla Punta Zumstein, nel massiccio del Rosa. Ad una sola settimana dall'annuale ritorno al Breithorn Occidentale, dunque, chi scrive ha voluto puntare nuovamente un Quattromila capace di coniugare bellezza, panoramicità ed impegno relativamente contenuto; l'analisi prevista per il Balmenhorn (ricco di spunti storici, dal Cristo delle Vette al piccolo Bivacco Felice Giordano) richiedeva infatti un approccio lucido, non oppresso dalla fatica. Si ricorda che nei pressi sorge anche la facilmente accessibile Punta Giordani, salita nel 2013 da Varasc.it; l'autore è tornato nel 2015 alla Vincent.

L'avvicinamento ha avuto inizio presso il grande parcheggio di Stafal, nell'alta Valle del Lys, mediante il primo tratto di ovovia per il Gabiet e successivamente il secondo troncone, più moderno, fino al Passo dei Salati, a quota 2936 metri. Qui, in tempi non troppo remoti, venne scoperto un filone di quarzo aurifero; dal cognome dell'autore di questa scoperta mineraria derivò il toponimo tuttora esistente. Lo scenario, spesso schiacciato dalle basse nubi in costante salita dalla contigua Valsesia, è particolarmente caratteristico, pregno di un senso di oppressione difficilmente riscontrabile a queste quote: lande desolate di pietrisco rossastro e nero, declivi franosi dove la terra e la mota contendono spazio e pendenza alla sottile graniglia creata dall'eterno attrito delle rocce. Appollaiate in conche, toccate da un'erta poderale bordata di erba e sfasciumi, sorgono come navette spaziali d'antan le stazioni di arrivo e partenza della funivia, dal Gabiet e, recentemente, per la vicina stazione di Indren. La salita, nell'estate 2010, costa solo 18 Euro: la discesa è gratuita. La cortese receptionist, a Stafal, ci ha proposto di pagare 30 Euro per sbarcare direttamente ad Indren, saltando dunque il fosco passaggio dello Stolemberg. Abbiamo declinato, lieti per lo sconto; ora, allontanandoci dai Salati oppressi dal peso degli zaini, ci scopriamo pressati da minacciose nubi temporalesche in avvicinamento da sud.

Lasciamo i Salati alle 12.40. Il meteo, nei giorni precedenti, si era infine allineato su una previsione per quel sabato 03 luglio: soleggiato in mattina, nubi nel pomeriggio, rovesci temporaleschi in serata. Pare tuttavia che il fronte alle nostre spalle non abbia letto il bollettino, anticipando gli eventi con una costanza peraltro encomiabile; Federico mi esorta a correre, impresa certo entusiasmante quando si è gravati di corda, picca, imbrago e relativi ciondoli, windstopper e giacca da alpinismo, litri d'acqua e ramponi, pantaloni lunghi e quant'altro. Personalmente, sotto le prime gocce di pioggia rinfrescante, penso solo a raggiungere il vecchio riparo all'arrivo dell'antica funivia d'Indren, a lato del ghiacciaio omonimo: chiuderci là dentro, aspettare che la cella temporalesca sfoghi la sua ira (Menin aeide, Thea...) e ripartire fino al Rifugio Mantova. 

Doppiamo lo Stolemberg, massiccia pinna dalle geometrie tolkeniane, nera, rossa, lucida, marcia, rovinata, colossalte. Piccole frane tintinnano e gorgogliano in basso; grandi nevai abbarbicati alle sue pareti occidentali come parentesi traslucide, ci impongono vertiginose salite nello spazio di pochi metri, mentre sulla sinistra l'abisso diviene sempre più ampio, incombente. Sprazzi di sole baciano il mio collo, mentre incuneo profondamente la punta degli scarponi, risalendo il primo nevaietto: non è più largo di mezzo metro, i suoi bordi sono di ghiaccio traslucido, abbarbicati ad un mare di fango color ocra che ingoia perfino le nere pietre dello Stolemberg. Il vecchio canapone bianco è imprigionato sotto la neve, eccolo riemergere, teso e vibrante per la morsa dell'ultimo gelo: mi guida nel passaggio in discesa sulle rocce piane, lucide e scivolose, levigate dal passo di migliaia di viandanti. Scendiamo, risaliamo. Terra e sabbia, ora; trattengo piccoli e grandi sassi per preservare Federico, che mi anticipa, ed eccoci nella conca a nord della montagna. Si torna a salire, ormai ben sopra i 3000 metri, tra piccoli e coraggiosi fiorellini pionieri.

Raggiungiamo il Rifugio Mantova alle ore 14.40, di gran carriera. Il ghiacciaio di Indren, che lo scorso anno era parso un misero nevaio pieno di acqua di fusione, è oggi in gran forma; pressati dalle nubi guerriere abbiamo optato per la più veloce via del canalino attrezzato, inerpicandoci dapprima su rocce appena coperte di una scivolosa patina nevosa, e quindi per la scaletta a pioli verticale che permette di uscire sulla cresta soprastante, sopra al Mantova. Si tratta in realtà della via più frequentata da chi vuole raggiungere il Rifugio Gnifetti, oppure da chi ha molta fretta, come noi; la serata trascorre tranquilla, tra un breve riposino nella nostra comoda stanzetta perlinata al primo piano (la numero 9) e due partite a scacchi nell'ampio salone del rifugio. In questi anni, i lavori al Rifugio Mantova al Garstelet hanno lentamente trasformato la vecchia e semplice casa in pietra in una struttura all'avanguardia, incredibilmente posta a 3498 metri di quota. La ditta Chenevier di Charvensod, specializzata in simili interventi al confine tra tecnologia ed alta quota, ha saputo realizzare l'incredibile: un perfetto esempio, tuttora in via di miglioramento, di risparmio energetico e basso impatto ambientale, capace di coniugare il rispetto ambientale e offrire un'accoglienza da vero e proprio albergo. Si lasciano scarponi e picche in un comodo, scuro vestibolo colmo di paia di Birkenstock ordinate per numero. Lo staff, nutrito ed efficiente, propone una cena da gourmet, con penne al sugo ed un buon vino rosso con cui assaporare lentamente lo spettacolare pollo alla birra con puré di patate che costituisce il secondo. Qualcuno applaude, la sala è affollata: scorgo i piatti serviti ai tavoli precedenti il nostro, le porzioni di pollo fragrante sono enormi, la carne bianca e tenera, la pelle croccante e saporita. Un successo. Dietro al bancone, su un'elegante rastrelliera, splendono scure bottiglie di Torretta, di vini di Arnad e Donnas, spumanti e rossi corposi; fuori dalle vetrate il sole si inabissa dietro alla Punta Perazzi, alla cresta del Quintino Sella. Incredibile.

La sveglia sarebbe prevista, per la mia cordata (io e Federico, ovviamente) per le ore 05.00: la Vincent non è lontana. Nonostante ciò, alle 04.20 siamo già in piedi, per via del frastuono provocato dai gruppi CAI nel corridoio: più cordate devono salire fino alla Punta Gnifetti, dunque ritengono giusto salire e scendere con scarponi, facendo vibrare perfino la parete in legno contro la quale appoggio il cuscino. Le donne si chiamano l'un l'altra da un capo all'altro del corridoio, parlano a voce alta del sonno perso o conquistato; gli uomini si lanciano in argute considerazioni sulla qualità dell'aria nelle rispettive stanze, su chi ha parlato nel sonno, sui cellulari che hanno "preso" perfino a letto, in un'atmosfera da provincia granda che mi sveglia irrimediabilmente. Odio questo comportamento, la mancanza di rispetto, il voler addomesticare ad ogni costo la montagna, imponendole perfino il proprio atteggiamento da compagnoni rumorosi e casinisti. Il chiamarsi urlando da un tavolo all'altro, i brindisi in piedi sulle sedie, i cori da stadio, l'esagerazione: mi vergogno a livello viscerale nel sentire le occhiate mute degli stranieri, dei tre cortesissimi ungheresi con cui saliremo oggi, dei tedeschi. Questo Lombardia Caput Mundi, reiterato ed esaltato al solo scopo di creare ed esaltare l'aggregazione, mi urta ad un livello tale da farmi sentire quasi snob. Così, dopo che gli attori dello spot della Skoda Yeti sono scesi a colazione, ci muoviamo a nostra volta. Pieghiamo religiosamente i bei piumoni arancio, in quattro secondi abbiamo ripartito vestiti  e cianfrusaglie da lasciare nel rifugio fino al nostro rientro, gli zaini sono pronti. Mi gusto la colazione, spaziando dal mirtillo alla nocciola ed invadendo i misteriosi territori delle fette biscottate, del burro, della Nutella: mi arresto solo davanti al miele. Un'orgia energetica ed iperzuccherata pervade le mie vene, ogni fibra di questa macchina che mi è stata assegnata 27 anni or sono, un ruggito biochimico di forza e voglia di correre fuori.

Impieghiamo dieci minuti netti a calzare i ramponi, questa volta già appoggiati alla pietra con la statuetta stilizzata del Cristo, a legarci ed a sistemare comodamente spallacci e corda in eccesso. Approvo la lunghezza della corda tra me e Federico, i nodi del primo di cordata, il semplice sistema che mi permette di dare o trattener corda all'occorrenza, pescando dai circa venti metri di riserva nello zaino: perfetto. Passo, respiro, passo, acceleriamo. Non servono nemmeno le frontali. Siamo partiti alle 05.45, inalberando un'andatura costante: recuperiamo lunghe cordate, salutiamo avventori incontrati a cena. Non c'è un soffio di vento e le nubi mattutine evaporano a sud, rivelando la Valle del Lys, il Monte Nery, la Becca Torché, la Punta di Soleron, la Testa Grigia; gli ampi crepacci sono tutti chiusi, la traccia è netta. Superiamo il primo step glaciale a lato del Rifugio Gnifetti, abbarbicato alle rocce rosse come il palazzo del Potala. Qualcuno parla lentamente al telefono da una delle sue balconate meridionali, baciate dal primo sole, e la sua voce rotola fino a noi nel tintinnio dei moschettoni, delle viti da ghiaccio, nel frinire delle lame che sfiorano la neve ad ogni falcata.

Il pianoro, il grande viale glaciale, la traccia. Secondo step, ben più lungo, con pendenza maggiore: la traccia si biforca e prendiamo a destra, salendo rapidi verso oriente alla volta del Colle Vincent, a 4088 metri: un'ampia sella affacciata su un baratro allucinante, su cui esplode abbacinante la luce del sole. Il valico si apre tra l'ampio pendio nevoso settentrionale della Piramide Vincent e l'erta cresta nera dello Schwarzhorn, mediata a lato dal rilievo roccioso del Balmenhorn. Pieghiamo a destra, verso sud, risalendo gli ampi piani in dolce pendenza: due tracce decorano il versante settentrionale della bella Piramide, una più ripida a destra (ovest) ed una più dolce, aggraziata, a sinistra (est). Scegliamo quest'ultima, arrivando in vetta alle 08.00, appena dopo il trio ungherese e poco prima di una cordata tedesca; indescrivibile il panorama, quassù alle soglie del Rosa, specialmente sul profondo baratro di roccia e neve verticali che si apre subitaneo ad oriente. A valle, le dorsali intervallive gemelle della Valsesia, della Valle del Lys e di Ayas inanellano batuffoli di nebbia mattutina verso il biancore malsano della pianura, schiacciata dal caldo e dall'afa; verso nord spicca la curva del Balmenhorn, oltre la quale la bastionata del Rosa torna a correre verso il Corno Nero, la Ludwigshöhe, il colossale dorso latteo della Parrot, che evoca suggestioni melvilliane. Chiamatemi Ismaele... Oppure lasciatemi qui, dove non c'è un alito di vento, su quest'ampia e bella vetta di neve, che nel 2010 presenta sul lato orientale anche un comodo rilievo che funge da sedile. Lasciatemi qui a guardare i tanti puntini che si avventurano sui piani glaciali al cospetto dei Lyskamm, salendo verso il rifugio più alto d'Europa.

Senza fretta arriva il momento di scendere, ma non ancora alla volta del Rifugio Mantova. Ai nostri piedi la traccia che discende al Colle Vincent non si arresta, non si limita a piegare nuovamente verso il solco centrale da cui siamo arrivati: un'ardita curva risale ripida il crinale nevoso, lontana dal baratro orientale ma egualmente slanciata, bella, sensuale. L'esile traccia piega vezzosamente verso sinistra, inerpicandosi sempre più in costa sull'algido pendio, scendendo appena e toccando le rosse rocce del Balmenhorn: un'opera d'arte, un breve canto d'amore per la montagna, per la purezza, una bella via di pochi minuti cesellata da una mano sapiente su un dorso di pura neve. E' qui, naturalmente, che continua la nostra storia: alla volta del Balmenhorn e della sua affascinante storia, che ancora non conosco.

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